DOPO QUALCHE TEMPO DI "STASI" ECCO DI NUOVO LA RUBRICA
PERIODICA...LEGGERE PER...
UN LIBRO TRA LE MANI
PERIODICA...LEGGERE PER...
UN LIBRO TRA LE MANI
... IL LIBRO CHE HO TRA LE MANI... IL ROMANZO “I
FUOCHI DEL BASENTO” DI R.Nigro
PERCHE' QUESTO ROMANZO ???
1- PERCHE' QUESTO ROMANZO
Fin dalla prima volta in
cui l' ho letto, parecchio tempo fa preparando una lezione
per un Laboratorio di Lettura da proporre a miei giovani studenti, mi hanno soprattutto affascinato i fatti narrati, un viaggio nella storia della Lucania, in particolare
delle terre intorno all'Ofanto, con Pasquale Nigro che, sul finire
del Settecento, raccontava ai figli e ai nipoti le gesta del brigante
Angelo Del Duca, che rubava ai ricchi per dare ai poveri, e poi con
il figlio Francesco Nigro, il cui sogno era quello di riuscire a
leggere e a scrivere e aveva nel sangue, come altri discendenti della
famiglia, la musica dei cantastorie, ma che presto, rivoltatosi
contro i padroni, si troverà a fare il capobrigante.
2- QUALE AMBIENTAZIONE ?
L'ambientazione
è quella del periodo che vide l'invasione del Regno delle Due
Sicilie di re Ferdinando I ("re Nasone") da parte dei
francesi di Napoleone, guidati dal generale Pallavicino. Questa
guerra, con il continuo reclutamento di giovani per organizzare "un
imponente esercito straccione", e contrastare il forte ed
inarrestabile esercito francese, è lo fondo della storia narrata. In
mezzo stanno i briganti, e i fuochi richiamati dal titolo sono, in principio, i fuochi dei bivacchi dei loro leggeri e fugaci accampamenti e, poi, quelli dei viaggiatori che attraversavano quelle
terre, o dei due eserciti che si fronteggiano, o dei disertori alla
macchia sui monti per non finire a combattere in Siberia. Quando
re Ferdinando decide la fuga, il vento francese della libertà
incoraggerà i primi coraggiosi a rivendicare le terre dei latifondi
("Ci si camminava col cavallo per giornate intere senza mai
sconfinare, da dove nasceva a dove moriva il sole") e affrancare
i contadini "dalle servitù, dalle decime, dai terraggi."
Francesco Nigro, "il generale", che non ha mai abbandonato
la sua passione per i libri di cui va facendo incetta nelle
sue scorrerie, decide di schierarsi dalla parte degli insorti.
3- COME L'AUTORE ESALTA LA
STORIA NARRATA?
Il
romanzo "I fuochi del Basento" conferma e moltiplica, con
la potenza e la suggestione delle grandi storie, l'autorevolezza
dell' autore, che ben si inserisce, a mio avviso, nel filone della
grande letteratura meridionalista, che ha visto fiorire opere quali,
ad esempio: I Malavoglia, I Viceré, Fontamara, Cristo si è fermato
a Eboli. In sostanza si allinea con i miei scrittori italiani
preferiti, Levi, Pirandello, Sgorlon e Abate.Emblematica la
descrizione, al capitolo 27, della morte di mamma Teresa Parlante
Nigro, la quale riesce a raccogliere e rimembrare tutti i secoli che
hanno segnato una donna del Sud e difficilmente se ne legge una
eguale per forza di immagine, per suggestione, tenerezza; nonché il
matrimonio di Teresa Addolorata, con quel superbo rituale antico: la
sposa "Per otto giorni non sarebbe uscita di casa, perché
nessuno leggesse sul suo volto i segni del peccato."
Anche la figura del cardinale Fabrizio Ruffo, che comanda l'esercito di re Nasone, a poco a poco giganteggia nel romanzo, affiancandosi a quella leggendaria di Francesco Nigro. Sono i loro movimenti, le loro conquiste di paesi e città, i loro saccheggi per le terre del Basento a riempire di fuochi e ad illuminare quell'epopea di uomini e di avvenimenti, che non manca di destare stupore come fosse ancora presente e viva, grazie ad un uso sapiente di termini dialettali, una pagina di storia lontana come ad esempio questa descrizione: "Nella strada polverosa passò una squadra di mietitori. Scalzi e laceri come sono i braccianti della Puglia. Riposato su un asino li guidava il caporale, si difendeva dal sole con un ombrello e aveva l'orcio fresco nella bisaccia."
Anche la figura del cardinale Fabrizio Ruffo, che comanda l'esercito di re Nasone, a poco a poco giganteggia nel romanzo, affiancandosi a quella leggendaria di Francesco Nigro. Sono i loro movimenti, le loro conquiste di paesi e città, i loro saccheggi per le terre del Basento a riempire di fuochi e ad illuminare quell'epopea di uomini e di avvenimenti, che non manca di destare stupore come fosse ancora presente e viva, grazie ad un uso sapiente di termini dialettali, una pagina di storia lontana come ad esempio questa descrizione: "Nella strada polverosa passò una squadra di mietitori. Scalzi e laceri come sono i braccianti della Puglia. Riposato su un asino li guidava il caporale, si difendeva dal sole con un ombrello e aveva l'orcio fresco nella bisaccia."
4- ALTRE SORPRESE NELLA
LETTURA?
BRIGANTE CROCCO |
Il libro ci riserva altre
sorprese anche con nuovi personaggi come Carlantonio, il figlio di
Francesco, vendicativo e spavaldo, finito anche lui nel brigantaggio
come il padre. Le bande di briganti, che attraversano le terre del
Basento, e ora si schierano coi francesi ora coi borboni, secondo il
tornaconto, oppure si scontrano tra loro per rubarsi il bottino di
un'imboscata, e, infine, sono combattute sia dai francesi del
generale Manhes che dai borboni di Federico Filangieri . Tra
Filangieri e Carlantonio vi è una questione privata da regolare,(un altro dei motivi di interesse di questa complessa
trama), sono qui veicolo di una esistenza dove legalità ed
illegalità diventano parole senza senso e solo viene riconosciuta la
forza bestiale della prepotenza e della sopraffazione: "aveva
quindi sospeso i prigionieri agli ippocastani per i piedi e li aveva
lasciati ad asciugare al sole." Il brigante Taccone, altra
figura trista e imponente, presso il quale Carlantonio troverà asilo
nella sua fuga, viene accolto nei paesi come un re: "Taccone re
di Calabria e Basilicata e generale comandante di una truppa di
trecento e passa uomini." Tempi, difficili in cui nessuna
pietà, nessuna attenzione per i deboli, i codardi e le donne, le
stesse spose dei briganti, da questi profanate e umiliate, subendo
spesso in silenzio: "C'è Palomino in giro, con dieci uomini.
Attacca le case di campagna, fa razzia di donne e le porta in Puglia,
in certi mercati di prostituzione." Anche con costui "il
generale" Carlantonio Nigro dovrà saldare un conto. E in questo
grande affresco storico fanno capolino come in una parata ben
quattro sovrani, da re Nasone a re Bombetta, insieme al sottile
filo- anche se nascosto sotto una grande rassegnazione - dello
spirito indomito di queste martoriate popolazioni, che ogni tanto
riemerge , abituate istintivamente alla rivolta, non importa contro
quale padrone: "Tommaso Campanella e La repubblica del Sole qui
hanno molti proseliti."
Alcuni personaggi, tuttavia, s'incaricano di fare la differenza e di dare una straordinaria levità ad una storia che altrimenti sarebbe - prostrata la povera gente perfino dal colera - solo cinica e beffarda: Pietropaolo ("comandato dall'angelo a seguirvi, tutti di casa, nel bene e nel male"), zio Luigi ("Agitava le braccia nel vento e tracciava dei segni"), Raffaele Arcangelo ("il generale dei poveri"), Maria Fonte di Bene ("figlia del faggio e di una lepre, figlia di un lupo e di una felce?"), che è la moglie di Vitodonato e madre di Bartolomeo, l'ultimo Nigro che appare nel romanzo e che riprende il nome di un antenato vissuto nel 1600, infine, davvero mirabile, un vero tocco di grazia, la presenza, di guida e di conforto, dei morti: "Andiamo, don Francesco, finché brillano i cerogeni - disse don Tommaso. Ma teniamoci vicini. Ho da raccontarvi degli anni che non avete visto."
Alcuni personaggi, tuttavia, s'incaricano di fare la differenza e di dare una straordinaria levità ad una storia che altrimenti sarebbe - prostrata la povera gente perfino dal colera - solo cinica e beffarda: Pietropaolo ("comandato dall'angelo a seguirvi, tutti di casa, nel bene e nel male"), zio Luigi ("Agitava le braccia nel vento e tracciava dei segni"), Raffaele Arcangelo ("il generale dei poveri"), Maria Fonte di Bene ("figlia del faggio e di una lepre, figlia di un lupo e di una felce?"), che è la moglie di Vitodonato e madre di Bartolomeo, l'ultimo Nigro che appare nel romanzo e che riprende il nome di un antenato vissuto nel 1600, infine, davvero mirabile, un vero tocco di grazia, la presenza, di guida e di conforto, dei morti: "Andiamo, don Francesco, finché brillano i cerogeni - disse don Tommaso. Ma teniamoci vicini. Ho da raccontarvi degli anni che non avete visto."
5- COSA DIRE SULL'AUTORE?
Raffaele Nigro nasce a
Melfi il 9 novembre 1947. Giornalista e autore di studi sulla
cultura e la letteratura delle regioni meridionali, si impone
all’attenzione di critici e lettori con questo romanzo d’esordio "I
fuochi del Basento" - 1987, Premio Super Campiello, che diventa
rapidamente un 'caso letterario': vite parallele di personaggi quasi
plutarchiani! Il brigantaggio meridionale da Mammone e Fra Diavolo a
Crocco e Ninco Nanco è il contesto delle vicende narrate,
ma l'autore solleva sul piano epico le gesta dei briganti del Sud,
evocandone la tipologia, assai ricca, dal verghiano Gramigna allo
ioviniano Pietro Veleno protagonista della "Signora Ava".
Così nella letteratura ritorna la storia, una storia meditata, viva e palpitante, sociale... Ne vien fuori la chanson des gestes di una gente diversa, una moltitudine subalterna... insomma il romanzo di Nigro è un grande affresco della società meridionale nelle sue coordinate essenziali: folklorico-popolare, religiosa, intellettuale. Di esse le prime due interagiscono e vivono, nell'opera, in stretta connessione fra loro. Prevale una sorta di arcaismo religioso e il mondo soprannaturale è complementare a quello della storia: entrambi si incontrano tra tradizioni popolari e superstizioni...
Così nella letteratura ritorna la storia, una storia meditata, viva e palpitante, sociale... Ne vien fuori la chanson des gestes di una gente diversa, una moltitudine subalterna... insomma il romanzo di Nigro è un grande affresco della società meridionale nelle sue coordinate essenziali: folklorico-popolare, religiosa, intellettuale. Di esse le prime due interagiscono e vivono, nell'opera, in stretta connessione fra loro. Prevale una sorta di arcaismo religioso e il mondo soprannaturale è complementare a quello della storia: entrambi si incontrano tra tradizioni popolari e superstizioni...
Quando Raffaele Nigro
dalla Breve iscrizione sulle prime pagine del romanzo “Fuochi del
Basento” fa dire a Rocco Scotellaro: "L’uomo che seppe la
guerra e le lotte degli uomini / imparò dal fascino della notte / il
chiarore del giorno" – 1- , si pensa che voglia dare una
traccia di lettura delle vicende vissute nel suo romanzo da uomini
di quattro generazioni.
1. Cfr. R. Nigro, I fuochi
del Basento (Milano, Camunia, 1987). Tutte le citazioni sono tratte
dalla menzionata edizione. I numeri tra parentesi indicano le pagine.
6- QUALI E QUANTI
CONTESTI?
Tracce che scavano nella
lunga notte del popolo meridionale, con le sue arretratezze feudali
ed ingiuste ed individua la serie di "guerre e di lotte",
di speranze e di sogni che porta luce in quel periodo oscuro con il suo fascino. Un popolo che partecipa alla sua storia grande o
piccola che sia, tutto avvolto in un’atmosfera di mito in cui
figure ed episodi sono simboli di passioni e debolezze, squallore ed
indigenza fino alla trasformazione in narrazione epica.
Interessante l’affermazione dello studioso meridionalista Giustino Fortunato: "Siamo quel che la razza, il clima, il luogo, la
storia [...] hanno voluto che fossimo" -2- per considerare che,
se pure l’uomo di Nigro vive in un ambiente, in cui natura e
cultura sono legate da reciproci pesanti condizionamenti, riesce egli
a non esserne completamente sopraffatto.
2. G. Fortunato, Le
cooperative di credito nel Mezzogiorno in Il Mezzogiorno e lo Stato
italiano (Firenze, La Nuova Italia, 1926), p. 56.
G. FORTUNATO |
Ho analizzato quanto questo uomo sia improntato dall’habitat e quanto la realtà
sociale e storica gli tolga autonomia perché il suo impegno
coraggioso possa essere colto nella giusta luce.
La conoscenza
della realtà- reminiscenza del nostro uomo - egli contadino,
bracciante , pastore- porta a considerare la natura selvaggia del
sud che rende rudi: implacabile, come "il sole che picchia senza
risparmio sulla terra dura e arsa", soffocante, come "l’afa
che sfa le carni ed uccide di pula e moscerini" (p.102), infida,
come le sabbie mobili e gli acquitrini che si nascondono "tra
tofe e felci" o come "i boschi lucani", dove "se
ti perdi sei morto".
E questa natura partecipa
agli eventi più intimi degli uomini, vive nei loro sogni
accompagnandone i pensieri, ricca di presenze, e alla natura
stessa si chiede un segno per il futuro, riparo, sostentamento. E'
una natura che accompagna al lavoro i braccianti "scalzi e
laceri" col sole che batte implacabile sulle schiene",
accoglie i pastori nel loro vagare "per sterpaglie e acquitrini,
tra luoghi infestati di zanzare, vipere, mosche, tafani" (p.
111), è avara e difficile col contadino, ostile con chi passa, il
rapporto con lei diventa "una lotta crudele" e
"fierissima", "una lotta di cui l’uno e l’altra
portano indelebili tracce dolorose" – 3 - , come suggerisce
Fortunato.
3. Ibidem, p. 58.
Questa gente costretta a vivere tra due nemici, la natura arcigna e l’uomo
sopraffattore (di qualsiasi genere), sceglie la prima, se la fa
amica, la considera protettrice dei suoi diritti.
In sostanza il brigante si
abbandona nelle sue braccia "nella macchia del demanio",
tra gli acquitrini, "nell’immensità di vigne, boschi incolti,
pascoli"; accetta la sua dura legge nelle marce di spostamento,
nelle fughe o negli inseguimenti ("tra siepi di sambuco e felci
che s’intricavano e diventavano macchione di acacie e querce",
p.195) "nella sterpaglia" che "sollevava polvere e
accresceva la sete", tra "rovi, finocchi selvatici, ferle"
dove le "pietre calcaree bianche come teschi" erano rifugio
"di vipere e impastoravacche", p.105; vi depone i suoi
segreti e suoi sogni ("voleva governare una corte speciale
costruita tra alberi, siepi, uccelli, radure e fiori", p.121);
la padroneggia.
.... la dura vita dei
brigante tra i monti:
“Sono giorni di fatica e
di batticuore quelli del bandito. Quando latrano ì cani pastorini e
squilla la tromba della guardia civica bisogna alzare il tacco. Una
banda di sette uomini ha turni di guardia molto frequenti e leva il
campo di fortuna in un batter d’occhio. Si getta erba bagnata e
terriccio sui tizzoni dove si sono arrostite due patate, un passero,
se va bene una gallina, e si fugge verso il cuore degli intrichi, tra
le canne e gli acquitrini, a cavallo chi ne ha uno, a piedi gli
altri, con la tromba, i comandi, le schioppettate nelle orecchie, la
morte dietro la nuca. Nelle ore di riposo si disegnano per terra
agguati, progetti di rapina, oppure si dorme, portati al sonno dalle
cicale e dalla cornacchia, dal ronzio dei tafani che dissanguano le
bestie.” (p. 24).
Ma questi monti accolgono
anche:
“...assassini. Si
muovevano sotto grandi alberi, tra felcioni e valeriane. Intercettati
spesso dal regio esercito per valloni scoscesi e strapiombi, vivevano
in continuo viaggio a piedi o con muli, si nutrivano di erbe e
selvaggina, sempre all’erta… Nella Sila si erano rifugiati
ricercati dalle gendarmerie, intellettuali infiammati da utopie,
gaglioffi (p. 28).
7- ... IL RUOLO DELLA
NATURA?
Natura amica e nemica,
soprattutto elemento di questa umanità meridionale e questa simbiosi tra uomo e natura si coglie nel romanzo
concretamente, nella figura di Maria
Fonte di Bene, la bimba trovata "all’esterno del muro di
cinta" della Casa del Preziosissimo Sangue "in un cestone
di salici e ginestre", quasi prodotto della terra. Eccola
"impastata di legno e fango", e appena ne ha la possibilità
comincia a "sgaiattolare da sé e non solo di giorno";
ribelle a tutto ciò che la limita, vive "su di un acacio"
fuori la Casa che l’accoglie, unico legame col mondo degli uomini.
Come "uno strano uccello", affiorando "dal folto del
fogliame", appare a Vitodonato Nigro: "un incrocio tra una
ninfa ed un gatto". La ninfa attrae il giovane "tra rovi"
e "felci", fugge verso l’Ofanto "nella piana
luminosa" e poi ancora nella "macchia", e i due vivono
nella natura come l’uomo all’alba della storia, lui fuggendo il
tradimento degli uomini, lei apparendo sempre più "figlia del
faggio e di una lepre, figlia di un lupo e di una felce"; e,
quando dovrà regolare la sua unione col giovane secondo la legge
degli uomini, ella ancora fuggire perché sente che non ha tra loro
le sue radici: "era l’Ofanto il suo progenitore, l’acqua che
scorreva nella macchia di pioppi e di olmi" (p. 230).
Il frutto di quell’unione,
Bartolomeo Nigro, ricorderà nel nome del nonno – antica stirpe-
di questa famiglia di braccianti, in lui vivrà l’eredità del
padre, patriota deluso e della madre, figlia dell’Ofanto, anche lui
un simbolo.
8- ... E QUELLO DELLA
CULTURA?
Altro elemento che
impronta questa gente, è la cultura, quel nerbo cioè che ne
fortifica la vita, sostiene il presente perché possa realizzarsi
la promessa del futuro.
Nel dipanarsi delle
vicende del romanzo ho notato la tensione verso il futuro che
qualifica il mondo dell'autore non chiuso in forme arcaiche di
comportamento pur se da esse tratteggiato.
È il caso della vicenda
di Teresa Addolorata cui tutti passionalmente si partecipa come in
un dramma greco fino alla catarsi finale cioè il rispetto della
legge ("prima l’onore e poi l’amore), frutto di quella
tradizione che assicura il futuro. Dopo di che la stirpe può
continuare e Vitoantonio, figlio di Carlatonio Nigro che ne aveva
ricostituito l’onore, sarà erede legittimo.
La stessa tensione verso
il futuro si individua nei racconti "delle sere d’estate e
d’inverno", nei quali gli anziani consegnano le tradizioni del
passato ai giovani; o nel legame dei morti con i vivi, che si
realizza nei sogni e si materializza, allorché vi è pericolo o
forte tensione emotiva, nelle apparizioni, che Carlantonio
giustifica come “ la raggiera incendiata del sole",
suggestioni, ma che in sostanza significano il necessario rapporto
passato-presente-futuro di cui si è detto.
Mi sembra che quei sogni,
quelle apparizioni, proprio perché sostengono l’uomo nei momenti
difficili segnandone le svolte della vita, proprio perché si muovono
nel tracciato della religione della stirpe e nella conferma della
tradizione, offrono epicità agli eventi. Né posso affermare in
modo azzardato che essi, insieme agli altri episodi, come le
stimmate di padre Raffaele Arcangelo, rappresentino il passaggio
dalla magia, attraverso il cristianesimo, al "senso delle
possibilità dell’uomo"
-4- approdando alla moderna psicologia del profondo.
-4- approdando alla moderna psicologia del profondo.
4 - E. De
Martino, Sud e magia (Milano, FeItrinelli, 1983), p. 96.
9- LA MAGIA...?
Credo che non si possa
cogliere, nel mondo de I fuochi del Basento, diffuse forme di bassa
magia, anzi tutte le espressioni della mentalità pagano-magica, di
cui sono eredi più saldi le masse contadine del sud, sono vissute
con disincanto, qualcosa con cui bisogna convivere e che comunque si
cerca di dominare. Eccone un esempio nell’episodio dei tarantati a
cui assiste Carlantonio:
Li accompagnava uno stuolo
di contadini e contadine con mandole flauti traccole e tamburi. […]
Più che ballare si arrotolavano al ritmo di una pizzica pizzica. […]
Aveva fissato le bocche dei malati per scorgere il diavolo che
abbandonava i corpi: non lo si vedeva mai. "Bisogna essere
diavolo e non farsi domare. Allora spaventi anche il diavolo",
stava pensando (p.118).
Il ricorso agli scongiuri,
ai "mali spiriti" oppure le varie credenze appaiono come
il frutto di un’antica saggezza mediante la quale affrontare la
vita, e con i proverbi, i detti, le massime di cui è ricca la
quotidianità, costituisce il sapere essenziale che fa da guida,
spiega, giustifica, educa, e che insieme alle storie di giovani
virtuosi e santi, forma la base affettiva e dottrinale
dell’educazione dei giovani.
Ed accanto alla magia
diremmo superficiale, ecco convivere il colorito cristianesimo
meridionale delle stimmate di padre Raffaele Arcangelo, venerate come
i santuari del Gargano o di Montevergine; ed anche gli esperimenti
di padre Paolino Tortorelli, lo scienziato della natura che viene
scagionato da un’accusa di stregoneria.
Una cultura perciò che
non ostacola la speranza.
10- COME ENTRANO LE
VICENDE NEL TESSUTO DELLA STORIA?
Terzo elemento da prendere in esame, le vicende che mai sono fuori della storia e agli uomini
che le improntano.Il
romanzo ha un andamento epico e sono stati chiamati in
campo i narratori latino-americani e Garcia Marquez in testa per carratterizzarne la
saga di una famiglia sullo sfondo della storia. Ecco Angiolello Del Duca,
il giustiziere sociale, gigante buono che difende i deboli come il
fiume Ofanto nutre la sua terra arsa; e tutti se ne tramandano le
gesta. L' eredità la raccoglie Francesco Nigro e poi, in altro
modo, suo figlio Raffaele Arcangelo.
Insieme a loro ancora
tanti, contadini o no, schierati ora con i giacobini o con i
sanfedisti, ora con i liberali o con i borbonici, esprimenti la voce
di un popolo che chiede giustizia e si fa giustizia, gente sfruttata
e lasciata sola, che affronta l’ urgenza dei bisogni primari
manifestandosi indomita e coraggiosa, le cui atrocità innegabili
("la furia dei cafoni è meno controllabile di quella dei
liberali", p.171), quando non sono il riflesso della crudezza
dell’ambiente o della "vita che avvelena," non si
mostrano peggiori di quelle che la guerra giustifica. Non un gregge,
dunque, ucciso dall’accidia, uomini, semmai disviati dall’ignoranza
che rende "testardi", incapaci di "alzare la testa",
divisi ("ci dividiamo, alcuni drizzano la spina dorsale e sono
per la repubblica, e altri restano piegati e sono per la schiavitù"
[p.79]), costretti ad ammazzarsi "come capretti", ma che
portano nella lotta la dignità della fede che chiede rispetto; a cui
vengono fatte promesse ("scuole, strade, sicurezza sociale",
p.107) sempre tradite, dal cardinale Ruffo e da Murat ("il
cardinale [...] promise la terra e poi ce la negò, Re Gioacchino ce
la promise e ce la negò ancora", p.189) da re Ferdinando ("Dove
stanno le scuole promesse? Le strade, la distribuzione delle terre ai
contadini, la bonifica degli acquitrini o delle marrane,
l’allentamento dei pesi?"), da Francesco II.
Uomini che sono comunque
sempre presenti nelle guerre che attraversano la loro terra ed
entrano nei loro campi portando distruzione e morte.
Tra questa gente c’è
chi ha trovato un modo per lottare contro le prepotenze ("il
brigante è come il nibbio e il falchetto, gira largo sulle alture e
quando cala c’è una vipera a prendersi il sole", p.99) o per
sfuggire a mire che non si comprendono ("meglio un brigante in
casa che inutile eroe in contrade straniere, p.148), ma anche c’è
chi è spinto solo dal desiderio di ricchezza ("dichiarò
apertamente che la sua strada si muoveva non verso la gloria, ma
verso il benessere, verso oro e ducati", p.32) e ci sono
"braccianti e pescatori braccati dai debiti": un fenomeno
prodotto da condizioni storiche ed ambientali che senza dubbio è "un
flagello", però accanto alla "sciagura degli invasori"
e alla calamità dei signori, "l’ira dei galantuomini è
peggio della violenza dei briganti", p.52).
E c’è l’erede di
Angiolello, Francesco Nigro, il brigante dei contadini, personaggio mitico, modellato sulla epopea del "brigante
delle montagne irpine" che i racconti degli anziani facevano
emergere "dalle nebbie degli anni" e che la lontananza
colorava di magnanimità e grandezza ("pensava che se fosse nato
brigante sarebbe stato generoso come Angelo Dei Duca"). E la
storia di questo brigante, che "taglieggiava i ricchi e
distribuiva ai poveri, fermava carrozze e diligenze con un gesto del
braccio o un nitrito del cavallo", (p.6), il giovane Francesco,
novello aedo, faceva rivivere nei suoi versi ("Aveva costruito
un intero poema su queste battaglie ...", p.71).
Come gli eroi mitici
Francesco Nigro è generoso ("era pieno d’amore, una fontana
di sentimento", p.5), tenace nella fede ("camminava con gli
occhi pieni di speranza [...] per questo camminava molto dentro e
fuori la macchia del demanio, dentro e fuori le terre dei Doria e dei
Galiani d’estate e d’inverno", p.51), fino a scommettere col
destino ("se quassopra [...] nasceranno le ginestre è segno che
imparerò a scrivere. Ed era come aver detto ’se voleranno gli
asini’", [p.81). E come nel mito quella tenacia è premiata:
Francesco Nigro diventa brigante e impara a scrivere.
La sua azione è tutta
tesa verso un ideale mondo più giusto per la sua gente ("Io
non combatto per rubare e per farmi ricco ma per l’emancipazione
dei contadini per affrancarli dalla servitù, dalle decime, dai
terraggi", p. 61), senza mai perdere, però, il giusto contatto
con la realtà ("Ma può bastare un albero [...] per essere
liberi? E, poi, liberi, come?. Al generale Nigro sembravano che
questi uomini uguali vivessero sulla luna", p.41 - 43) e senza
ciechi odi ("Per quanto avesse abbracciato la causa giacobina
non riusciva a cacciare dal cuore e dalla mente l’immagine di un re
al quale aveva dato le sembianze del padre", p.48). Il comando
non lo esalta ("Ordinò che non venissero ulteriormente
molestati, che non venissero molestate le donne e che si rispettasse
la dignità di ognuno", p,66) e i progetti per il futuro restano
semplici e giusti ("una casa grande [...] con tanti bei mobili e
vetrate che riempirò di libri, p.63): lo rendono umanissimo.
...E VIA DI SEGUITO...
...E VIA DI SEGUITO...
A fianco dei giacobini del
'99 si innalza di tanto sui civili arricchiti e sui nobili che della
rivoluzione si servivano per i loro interessi.
Quando affronta l’ultima
prova sapendo di dover soccombere (l’avo Bartolomeo gli aveva
predetto la sconfitta) come Angiolello ("Angiolello ci vuole
a battaglia / vuole fuochi di sangue non fuochi di paglia / ci vuole
tutti a Potenza / addio, addio poesia e scienza", p.58) e quando
incontra per l’ultima volta la moglie e il figlio ("’Sono
venuto a stare con voi qualche ora’, ribadì […] strappando dalle
braccia della moglie Raffaele Arcangelo",p. 60). Francesco
somiglia al mitico difensore di Troia.
Mitiche...la
cavalcata lungo l’Ofanto ("padroneggiava la bestia con
l’abilità del potatore che vola sulle cime degli alberi come un
falchetto", p.61), la sosta sulla collina che accoglie i morti
della famiglia quasi per ricevere dalla stirpe il suggello alla sua
missione, il racconto alla donna delle sue gesta, l'ultima volta con
lei (l’eroe resta sempre uomo), infine il bagno nel Basento che
richiama quello di Angiolello nell’Ofanto. Così purificato sarà
pronto per il sacrificio: la sua morte "in mezzo ad un nugolo di
nemici" diventa il simbolo della rivolta contadina contro re e
baroni. Ma subito questo simbolo si stempera in un pathos umanissimo,
che dà la consapevolezza del prezzo di impegno personale che
richiedono le conquiste dell’uomo ("a sue spese imparò quanto
costa portare ritta la schiena", p.80).
Destinato a continuare la
stirpe dei Nigro è Carlantonio, diverso dal padre, lotta sull’altro
fronte, dalla parte dei Borboni, evidenziando le divisioni che
dilaniavano le plebi contadine. A lui tocca difendere l’onore della
famiglia (ed è brigante crudele tra briganti crudeli, conosce fughe
e tradimenti) e ricostituirne il nucleo distrutto da epidemie e
guerre. Morirà insieme con i briganti del ’61, rispondendo ad un
"richiamo ancestrale," contro altre prepotenze.
Erede degli ideali di
Francesco è, invece, Raffaele Arcangelo, frate carmelitano, segnato
dalle stimmate, viene a contatto con la miseria dei diseredati, ma
calca altri sentieri per proseguire l’opera del padre, sollevandosi
quel tanto sul marciume dei mondo solo per non farsene contagiare;
diventa "Generale dei poveri" col suo Ospizio dei
Preziosissimo Sangue ("Un regno per i disgraziati [...] a difesa
del corpo e dello spirito", 190), è con la gente e tra la gente
("Dobbiamo tamponare il fiume di sangue che scorre per le.
strade del regno", p.202) dove non arrivano né leggi, né
ospedali, né scuole "per dare una professione ai giovani, per
insegnare il leggere e lo scrivere, per educare i figli dei poveri"
e i briganti al suo seguito diventano uomini ("Una serpe? S'era
fatto uomo",p. 210).
Alle vicende di questo
popolo partecipa Vitodonato Nigro, uomo di penna, "carbonaro
convinto ("Solleveremo tutto il regno contro i borboni e
finalmente avremo la libertà", p.212), ma deluso dal re è
costretto anche lui alla macchia; partecipa con una banda di
briganti, dalla parte di Garibaldi, allo scontro contro i borbonici
nella piana di S. Eufemia, convinto per un momento di vedere
realizzarsi un "nuovo mondo" ("osservava il generale
Garibaldi che si accostava al cavallo del brigante, tendeva la mano
per ringraziare dell’aiuto"); ma assiste al tradimento dei
piemontesi ed è costretto a calare il capo e "rientrare nel
solco" come avevano fatto le precedenti generazioni, mentre suo
figlio Bartolomeo parte per l’America, il paese dove "il
signor Washington per primo aveva insegnato la libertà ai re".
Particolare l’immagine
dell’America che "si era infilata nella mente di Vitodonato e
metteva radici con la stessa insistenza con cui aveva messo foglie e
frutti l’idea della patria senza borboni" (p.23l), per
considerare come le due idee si fondino in una unica grande ricerca
di libertà, come per l’emigrante sia quella ricerca operata fuori
della patria e come l’idea gli sia stata inculcata da Maria della
Fonte, figlia dell’Ofanto, mentre dal fiume gridava la sua
ribellione al mondo degli uomini ("mio figlio sarà un
navigatore che arriverà fino alla bella isola dell’America",
p. 231).
Ci sembra di vedere in
questa ricerca di libertà che alimenta le vicende del romanzo quella
scia che semina bagliori nella notte di cui parlavamo all’inizio.
Infine, ecco Bartolomeo
Nigro che veleggia per l’America, rappresentante di quelle
generazioni, depositario di quella tradizione, segnato da quella
natura, per significare il fiume di energie ed ideali che porterà via i govani dalle zone del sud.
Contribuirà questa
migrazione a cristallizzare in tante zone la realtà descritta da Levi e
Scotellaro.
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