lunedì 10 marzo 2014

Giro d'Italia Letterario, 10 marzo con Michela Murgia e Sa femmina accabadora


 
 Blog che ha ideato questo lungo ed interessante GIRO D'ITALIA LETTERARIO, un cammino a tappe  verso la conoscenza ed analisi di romanzi,  o ambientati nelle regioni italiane o scritti da autori appartenenti alle regioni d' Italia,
Buon lunedì!
 
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SOSTA  IN SARDEGNA con  "Accabadora" di Michela Murgia, Romanzo-   Premio letterario Campiello 2010
 
 
"Fillus de anima.E' così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un'altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell'anima di Bonaria Urrai.Quando la vecchia si era fermata sotto la pianta del limone a parlare con sua madre Anna Teresa Listru, Maria aveva sei anni ed era l'errore dopo tre cose giuste. Le sue sorelle erano già signorine e lei giocava per terra a fare una torta di fango...Andò via con Tzia Bonaria quel giorno stesso, tenendo la torta di fango in una mano, e nell' altra una sporta piena di uova fresche e prezzemolo, miserabile viatico di ringraziamento. [pag. 3]
 
 
 Il romanzo narra dunque anche di questa  consuetudine sociale: quando un bambino non può essere mantenuto dalla famiglia originaria, viene ‘adottato’ da qualcuno, all’interno della società rurale, che lo faccia crescere decentemente. Tutto questo avveniva - probabilmente succede ancora- , senza bisogno di magistratura e documenti, ma solo con un tacito accordo tra famiglie. In questo modo, una bambina, Maria Lustru, diviene ‘figlia’ di Tzia Bonaria Urrai l’accabadora di Sereni.  
«Fillus de anima. È così che chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Lustru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai». 
 
Linguaggio crudo e arcaico ma straordinario, usato per rappresentare questa storia viscerale,   per mezzo di fonemi dal suono netto: come un sasso che batte su di un sasso. Suoni sordi evocatori del pathos dell’esistere umano. Da queste parole, che hanno la certezza della terra, nascono immagini scolpite nella roccia, immagini finite, come le ombre che a mezzogiorno si nascondono. Le parole di Michela Murgia vanno oltre la  parola e l' immagine con fiammate di poesia che quasi "incendiano" il senso dell’umano vivere e morire dei personaggi.
 
 Storia ambientata in Sardegna, eccetto  una breve parentesi torinese,  negli anni '50;  storia della relazione fra le due donne, la piccola Maria e la matura sarta Bonaria.
Maria sarà educata e cresciuta per diventare curatrice di Bonaria, quando  sarà necessario, potrà studiare e sarà rispettata da parte della vecchia sarta, nel paesino di Soreni in cui non mancano i commenti malevoli al loro passaggio.
Tuttavia c'è qualcosa di strano nelle uscite notturne di Bonaria, in quel suo vestirsi sempre di nero, in quella sua sapienza rispetto alle cose della vita e della morte; ciò che Maria scoprirà, in modo doloroso e casuale, è che Tzia Bonaria - secondo necessità - entra nelle case per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell' accabadora, l'ultima madre.
La scoperta inaspettata porterà Maria lontana dalla madre d'adozione, dal paese, dall'isola ma vi ritornerà negli ultimi mesi di vita di Bonaria quando ci sarà bisogno della sua presenza.
Uno dei protagonisti, che dà anche il titolo al suo romanzo, è dunque questo  personaggio che accompagna le persone nella morte,  ma quello incarnato da Bonaria, non è il vero tema del libro, bensì, secondo me, la maternità scelta. 
Forse il titolo porta ad un fraintendimento, ma in Sardegna, perché solo nell'isola qualcuno sa che l'accabadora è una persona che accompagna i morenti nell'agonia fino alla morte.
L'interesse della Murgia è sempre stato quello di parlare di una maternità ad ampio spettro, al di là della retorica della madre sempre buona, comprensiva e accogliente. La maternità ha anche dei lati oscuri e questa madre di cui l'autrice racconta,  ha una concezione di maternità con tinte d'ombra. Lo stesso spirito con cui accoglie la bambina nella sua casa è lo stesso spirito con cui accompagna l'agonizzante alla morte. Ci sono tanti modi di essere madre. Non è detto che quello dell'accabadora sia peraltro più oscuro.
In Sardegna quella dell'accabadora, comunque,  è una figura un po' fuori dalla norma e non si capisce se è una figura mitica e se sia esistita veramente, anche se  qualcuno smentisce la sua esistenza...
Allo stato attuale non ci sono documenti storiografici sufficientemente attendibili per affermare che sia esistita una figura istituzionale delegata dalla comunità per svolgere questo compito ma vi sono  delle narrazioni che riportano episodi di accabaduras che sono sicuramente corrispondenti al vero ma da qui a immaginare l'esistenza di una figura ministeriale con questo ruolo è una questione più complessa perché non esistono prove scritte.
Per avere una conferma sarebbe sufficiente una condanna in un archivio storico ma fino a questo momento non ve ne sono. Questo non significa che non sia esistita perché in Sardegna, per molti anni si è affidata la storia all'oralità. Tutto ciò che era importante dirsi se lo sono passati  a voce, spesso in rima per favorire il ricordo. La storiografia ufficiale però non riconosce valore alle testimonianze orali. Oltretutto la Murgia  non ha fatto un lavoro antropologico-etnografico. Su questo tema l'antropologa Dolores Turchi ha lavorato molto ed in maniera molto approfondita.

La nostra autrice invece è  rimasta suggestionata dalla potenza della figura dell'accabadora che è un archetipo. E d'altronde il piano su cui lavora la Murgia  è quello delle narrazioni, l'accabadora esiste perché esiste nei racconti. Tutto il resto si può lasciare agli studiosi, afferma la giovane scrittrice sarda.
Michela Murgia a me sembra che ci abbia offerto,  con una scrittura pulita e  scorrevole, un ritratto di comunità con le sue regole ben precise, con patti taciti e condivisi suggerendo  al lettore, oltre alla storia di  fondo della relazione principale, la riflessione su alcuni temi problematici e attuali.
Ecco, suggerisce, non dà risposte e non va oltre.

Ad esempio, il legame fra madre e figlio è solo quello biologico o si può accettare il valore affettivo di una relazione di carattere sociale e non naturale?
Altro input: che posto  mentale occupa, per l'uomo d'oggi, il momento della morte, si può incaricare qualcuno per far  morire dignitosamente?
La Murgia affronta questi temi molto complessi,  raccontandoli  con equilibrio segreto e sostanziale, in cui le domande . in quel contesto, avevano risposte chiare come le tessere di un "
alfabeto elementare di quando gli oggetti e il loro nome erano misteri non ancora separati dalla violenza sottile dell' analisi logica".
Scelgo un passaggio particolare per chiudere questa mia analisi.
Maria, giovane donna, è sul ponte di una nave e volge le spalle a Soreni, non – luogo della Sardegna dove la vicenda si svolge, alla volta di Torino, alla ricerca di un’ennesima nuova vita.
Scappa. Fugge dalle rivelazioni del suo migliore amico, Andrìa, dal senso di tradimento della sconosciuta che l’ha cresciuta.
Non comprende ancora che essere “fill’e anima” è un legame più profondo dell’essere madre e figlia, è una scelta consapevole per l’una ed una rinascita per l’altra. Bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto è figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai. Perché Tzìa Bonaria ha scelto lei?
E' diventata la figlia per una vedova senza sposo alla quale chiedere presenza e cura quando ne giungerà il momento. Questo è solo uno dei molteplici, taciti, patti condivisi, fatti di regole e divieti, di cose che si fanno e non si dicono, di ruoli ufficiosi ma riconosciuti.
Maria cresce rassicurata dalle poche parole e dai gesti dosati di Bonaria ma in un’assoluta libertà, atipica per periodo e contesto, di guardare, muoversi e maturare sia nell’animo che nello spirito.
Quando “il presente ed il passato tornano a guardarsi come dopo un armistizio” Maria sa che deve tornare alla sua terra, confortare Bonaria; ed il racconto scivola via  all’apparenza lieve, non meno profondo di quanto ci si possa aspettare, con un  linguaggio semplice e pulito, inframmezzato da espressioni dialettali, atteggiamenti ruvidi che rafforzano lo spirito del contesto di una Sardegna rurale degli anni ’50. 
Michela Murgia con delicatezza, quasi sottovoce, porta alla luce vari temi e  con questo romanzo   scavalca tempo e spazio per farci trovare catapultati da un paese della Sardegna degli anni Cinquanta al mondo d’oggi: «La Sardegna degli anni Cinquanta è un mondo antico (…) ha le sue regole e i suoi divieti, una lingua atavica e taciti patti condivisi. La comunità è come un organismo, conosce le proprie esigenze per istinto e senza troppe parole sa come affrontarle».
 LE IMMAGINI DA ME RIELABORATE, PROVENGONO DAL WEB
 

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