Cari Lettori eccoci al quarto appuntamento con la RUBRICA 30
SETTIMANE....DI LIBRI che ogni MARTEDI' vi invita a seguirmi e
condividere le ragioni di una lettura o rilettura in modo
singolare.
INCONTRO CON GRAZIA DELEDDA
«Basta approfondire la lettura di "Canne al Vento" per accorgersi che
non c’è niente di pacificato in questa terra dalle grandi armonie», scrive
Dacia Maraini parlando della Sardegna nell’introduzione al romanzo di Grazia
Deledda collana «I classici della letteratura. Grandi
autrici», "Corriere».
Così come non si placa il vento, la sorte, che fa ondeggiare violentemente le canne, metafora
dell’umanità e costante presenza nel paesaggio e nel romanzo a cui danno titolo
Le canne al vento di Grazia Deledda, un secolo dopo
1913-2013, cent’anni di grandi
cambiamenti, di eventi da ricordare comunque, di persone che
hanno lasciato il segno e un personaggio che non ha
risentito né mai risentirà del tempo che passa, grande scrittrice, l’unica donna italiana alla quale sia mai stato
conferito (anno 1926) il premio Nobel per la letteratura: Grazia Deledda ed il suo romanzo Canne al vento.
Il suo modo di scrivere,
descrivere, narrare, cattura la mente e lo stomaco per quella
sua incredibile capacità di raccontare le debolezze umane, il timore
delle passioni, la colpa, il segreto, il desiderio di espiazione, il senso del peccato che mostra tutta la fragilità dell’uomo.
Una scrittura senza tempo quella della Deledda che emerge in particolar modo in
quest’opera che quast' anno compie un secolo ma che potrebbe esser stata
scritta ieri.
UNA IDEALE INTERVISTA A GRAZIA DELEDDA
la giovane
- Come era la vita nuorese?
La vita nuorese che ho spesso descritto era votata
al patriarcato,e le donne si opponevano vigorosamente al mio desiderio di scrivere: lo fecero per prime le mie due
zie, mia madre, e anche le compaesane. Ma io mi sentivo diversa dalle donne delle mia età.
-Cosa ti aspettavi dal mondo degli uomini?
Fin da quando ero abbastanza giovane non mi aspettavo nulla dal
mondo degli uomini: i tre esempi familiari mi avevano delusa. Mio
padre moriva lasciando noi cinque donne Deledda nelle mani di due giovani
privi di capacità: Santus preda dell’alcolismo, Andrea della vita
licenziosa e ai margini della legalità. Noi donne ci stringemmo fra noi e riscoprimmo una certa melanconica complicità e mandammo avanti la
famiglia, gli uomini si lasciatono trasportare dagli eventi come foglie
mosse dal vento.
Tanto diversa dalle altre ragazze tant’è che mi guadagnai - e qui è il mio carattere deciso della donna che diventerò- il diritto di
seguire lezioni private. Fu una delle mie prime vittorie. Non furono tanto le lezioni di italiano ricevute a rendermi la
scrittrice che sono stata, quanto piuttosto le mie letture: la biblioteca
di mio padre è stata un ottimo inizio, ma la vera fortuna fu la biblioteca del
professore del Regio Ginnasio - scappato in gran fretta senza pagarci la
pigione- ad arricchire la mia fantasia di scrittrice.
-Cosa ha significato la lettura per poi scrivere?
Se leggere era un sogno, scrivere era la mia vocazione. Il mio insegnante di
scuola elementare, mi assegnava dei temi da scrivere; alcuni di essi
vennero fuori così bene che mi disse di pubblicarli in un giornale. Non
sapevo che avrei potuto mandare i miei racconti. Trovai un giornale di moda e spedii una novella. Fu immediatamente pubblicata nel 1888.
- Quali le ostilità?
Non mi arresi nemmeno quando venni pubblicamente ripresa in chiesa dal prete Virdis: “Farebbe bene a pregare chi invece si diletta nello scrivere per i giornali storie scostumate!”
Avevo 17 anni e in mia difesa venne Antonio Ballero, letterato,
pittore, fotografo e mio caro amico che chiese al
prete di ritrattare ma probabilmente i due non trovarono un
accordo dato che vennero alle mani.
-E Grazia la moderna?
Sai agli inizi del 900 fui esempio di modernità, ma a modo mio. Non lottavo per le donne, ma per me stessa, per affrancarmi dalle catene che mi vincolavano, per la gloria che desideravo, per il potere e la scrittura, perché ero sicura che tutto ciò sarebbe diventato un passi per aprire tutte queste porte.
-Come hai ottenuto l'emancipazione?
La mia personalissima emancipazione la ottenni in una maniera del tutto insolita: non guardai, come facevano le altre donne rivoluzionarie di inizio novecento al futuro, ma si rivolsi al vecchio, al passato, alla tradizione dalla quale fuggivo ma della quale non potevo far a meno, come un sicuro contenitore che mi consentisse di vivere in libertà tutta la sua modernità. D’altronde non mi sono mai stancata di descrivere la società sarda nella quale ho lungamente vissuto, come patriarcale. Eppure nei miei romanzi (esattamente come nella mia vita) gli uomini hanno vissuto in balia delle vicende, e le figure forti, immutabili, glaciali sono tutte donne.
- E la Grazia scrittrice?
Il contrasto divenne assai stridente anche nella mia vita romana: quando mio marito rientrava in casa lo chiamavo, con i figli, “il padrone” eppure Palmiro è stato piuttosto il mio segretario e factotum: ha studiato lingue straniere per curare i contatti con gli editori di tutta Europa, ed è stato lui a inaugurare i rapporti con i personaggi di un certo rilievo per mio conto. Di questo mio strano menage familiare Pirandello (che non mi apprezzò mai !!) ne parlò ironicamente nel suo “Il marito” una parodia che ebbe pochissimo successo e che l’autore rivide prima di morire. Io, Grazia Deledda, ero temibile, e nei miei anni romani ero temuta, eppure non mi stancai mai di descrivermi ed immaginarmi come una devota moglie sottomessa al marito, il padrone. Ma è stato l’unico modo forse per vivere la mia vita di donna moderna, pur non distaccandomi dalla tradizione nuorese nella quale ero cresciuta, che rifuggii partendo per Roma per vivere la mia vita di scrittrice, e della quale non potevo fare a meno.
- Come iniziasti?
Quando presi la penna in mano per la prima volta lo feci per raccontare di quei personaggi che avevo conosciuto all’interno della mia cucina: io bambina seduta davanti al fuoco domestico conoscevo la Sardegna e molti di quelli che diventeranno i personaggi dei miei romanzi. D’altronde non era raro che mio padre ospitasse amici provenienti dai paesi vicini e questi con i propri racconti e con le proprie vicende seminarono nella mia fantasia mille e una storia. Poi c’era mio fratello Andrea che mi raccontava delle sue avventure e mi portava fra pastori e amici, e i servi che lavoravano i nostri terreni. C’era Proto con le sue storie di santi, e il servo “ amico dei latitanti e anche dei banditi” e di questi raccontava con gran consenso da parte di noi bambini. Quando vidi pubblicata nella rivista “L’ultima moda” la mia prima novella, 1887, “Sangue Sardo”, due colonne di prosa ingenuamente dialettale (la lingua che nella mia famiglia e nel mio paese veniva utilizzata era il lugodorese, un dialetto sardo, molto vicino al latino) pubblicate solo grazie alla mia intraprendenza di giovanissima scrittrice, mi resi conto che avevo raggiunto autonomia e una certa audacia. Pur se il fatto destò all’interno delle mura domestiche una “condanna senza appello”, eppure non abbandonai il mio sogno e l’anno successivo inviai alla rivista il mio primo romanzo. Ciò scatenò “un rogo di malignità, di supposizioni scandalose, di profezie libertine”.Fui accusata dai miei concittadini di aver macchiato l’onore della Sardegna nel ritrarre i costumi antichi e rustici, la miseria e la violenza. Ne fui profondamente addolorata perché ho amato molto la mia terra natale.
Ma è stato il romanzo Canne al Vento , nella piena maturità della mia vita, che offrì lo spunto alla mia arte di scrittrice, particolarmente in Italia. Il romanzo rifletteva le mie migliori qualità di scrittrice; “Canne al Vento" 1913, lo scrissi con semplicità di disegno e analisi psicologica.
Ma la trama del mio romanzo te la voglio raccontare, cara intervistatrice!! : una nobile famiglia, i Pintor padre, madre, quattro figlie - che vive in un villaggio- è caduta in miseria; vita triste, desolata e monotona dei protagonisti e poi una disgrazia e un delitto. Le figlie hanno ereditato il podere del padre Don Zame. Il podere con la casa rovinata offre poco sostentamento e in seguito devono far fronte alla miseria che diviene enorme ogni giorno di più. Efix è il servo delle figlie Pintor che non possono più pagarlo ma lui continua a servirle e a essere loro utile, anche quando Lia, la terza delle sorelle, non riuscendo a sopportare le condizioni imposte dal prepotente padre Don Zame che si comporta in modo superbo e crudele verso le donne, decide di abbandonare la casa paterna e fugge dall’isola verso il continente, dove si sposa e ha un figlio - Giacinto. Efix diviene complice nella fuga, con risultati tragici alla fine. La fuga fa impazzire il padre, le sorelle la disonorano, e per molto tempo non si sa più nulla di lei. Il padre che aveva inseguito la figlia, muore in modo misterioso Il romanzo, che è basato sul personaggio di Efix, è molto avvincente.
È da questo orribile delitto, che si ha la decadenza della famiglia Pintor. Efix ha rimorso di aver ucciso. La sua sofferenza è di espiare il suo peccato e di farlo in silenzio, la sua coscienza non gli permette altro. Il povero Efix soffre perché ha osato amare, un amore non giusto per la sua padrona, perché la donna era superiore alla sua condizione. Si preoccupa e fa di tutto per aiutare le “dame” Pintor. Poveretto, si allontana, va peregrinando fra i poveri e i ciechi ma poi, pieno di rimorsi, torna a servire perché servire, e anche proteggere, è il suo dovere. Il delitto che lui ha commesso deve essere espiato ed egli accetta il suo destino con rassegnazione.
All’avvicinarsi della sua morte e allontanato da tutti, Efix ascolta il linguaggio delle canne che hanno qualcosa di umano. Nel loro mormorio ci sono parole e ammonimenti. Si ritrova solo, ma circondato da un muro che lo serra. Lui doveva andarsene per lasciar libere le “dame”, e perché Naomi potesse sposarsi con Don Pedru. Efix è trasformato, e c’è festa nuziale in paese; la fisarmonica suona note di gioia in onore degli sposi e porterà fortuna alle sorelle. Di questo il morente Efix si rallegra, ora può morire in pace. Ed è così che si chiude la pagina di Efix: “Chiuse gli occhi e si tirò il panno sulla testa. Ed ecco…le canne mormoravano… gli pareva di addormentarsi… ma d’improvviso sussultò, ebbe l’impressione di precipitare… Era caduto di là, nella valle della morte"
- Ed i tuoi rapporti con il dialetto?
Nelle mie opere il lettore ha potuto incontrare la vera letteratura, quella che è sapere sulla vita, quella che insegna come ci si comporta perché ha trasmesso il millenario sapere antropologico-religioso di una comunità.
E l'intervistatrice è d'accordo con la stessa critica del Prof Tanda (autore di una raccolta di saggi Dal mito dell’isola all’isola del mito. Deledda e dintorni, Bulzoni, 1992) quando ha sottolineato la modernità della Deledda, scrittrice che in pieno Positivismo (quando la Sardegna era considerata la terra della “razza delinquente”), confrontandosi con il tema del male (Dostoevskij), ha evidenziato la responsabilità individuale, ha posto l’accento sulla libertà di scelta.
Grazie a questa autrice, che ha trattato le moderne problematiche collegate alla funzione dell’interiorità psicologica, al sentimento della fragilità dell’uomo, la Sardegna ha acquistato un suo preciso spazio “come la Sicilia di Pirandello, la Trieste di Svevo".
Ringrazio idealmente Grazia Deledda per avermi permesso LA RISCOPERTA DELLA SUA FIGURA
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