lunedì 11 luglio 2022

A Silvia------la poesia di Leopardi...l’inizio di una nuova stagione poetica

 


una delle poesie più belle e note di Giacomo Leopardi. E’ uno dei grandi idilli,  fa parte del terzo tempo della lirica leopardiana (1828-1830).


Il poeta Giacomo Leopardi moriva a Napoli il 14 giugno del 1837. Da quel giorno di fine primavera a oggi sono passati quasi 200 anni, ma la forza della sua poesia non si è mai indebolita e continua a toccare le corde più profonde dei nostri cuori, come in questi celebri versi. Amato da generazioni di studenti, Leopardi ha fatto breccia nel cuore di giovani e adulti, grazie alla sua capacità straordinaria di parlare della vita, delle inquietudini dell’animo, di cogliere gli aspetti più reconditi della realtà.

Noi lo ricordiamo il 14 giugno , nell’anniversario della sua nascita, con uno degli incipit più famosi della letteratura mondiale, i primi versi della lirica “A Silvia“, il canto d’amore che  Leopardi rivolge a Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi. Composta tra il 19 e il 20 aprile del 1828, la poesia “A Silvia” parla della distruzione delle speranze e delle illusioni giovanili.   Silvia aveva 16 anni,  quando morì. Silvia, in realtà sarebbe lo pseudonimo  di Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi, che morì nel 1818 per tisi polmonare. Non sappiamo se Giacomo fosse innamorato di Teresa, ma dai versi che le dedica sembra proprio che fosse così. Lei popolana, lui nobile; lei spensierata e semplice, lui sempre chino sui libri, nella sua biblioteca. Ma ad accomunarli la stessa esuberanza e la stessa identica voglia di vivere e di felicità. Felicità spezzata dalla morte prematura di Silvia, che a soli 16 anni abbandona il mondo terrestre, diventando uno degli emblemi della sofferenza che costella la poetica leopardiana.


A Silvia” (a Selva/natura)  per Leopardi l’inizio di una nuova stagione poetica, tra il 1828 e il 1830 canto, composto a Pisa nel 1828,una confessione del poeta. E’ costruito come un dialogo con Silvia. Il canto si divide in due parti: la prima parte ha carattere rievocativo, incentrato sulla poetica della memoria, la seconda parte ha carattere riflessivo.


Nella prima parte, Leopardi domanda a Silvia se, dopo tanti anni, ricorda ancora i giorni felici nei quali si affacciava alla giovinezza. Quando anche il poeta aveva nel cuore la fiducia nella vita e, come Silvia, aveva pensieri piacevoli, speranze e belli gli apparivano il fato e la vita. Tuttavia questo è destinato a finire per colpa della natura, che promette negli anni della giovinezza e dell’adolescenza, ma poi non mantiene ciò che ha promesso. Nella seconda parte il poeta fa un paragone tra il destino della ragazza e il suo. Silvia moriva senza veder fiorire la sua giovinezza, senza poter parlare di amore con le compagne e senza godere delle lodi della propria bellezza. Con la sua morte, tramontava anche la speranza di felicità di Leopardi. A lui, infatti, come a Silvia, i fati negarono le gioie della giovinezza, dove sogni e speranze dovrebbero diventare realtà.  Svaniti dunque i sogni con l’apparire della realtà dolorosa, non resta altro che la morte per liberarci dalla miseria e dalle amarezze della vita

PARTICOLARITA'

Silvia è un nome di pastorella, tratto forse dall’Aminta di T. Tasso;  per la cui morte precoce il poeta aveva registrato negli “Appunti e ricordi”: “Odi anacreontiche composte da me alla ringhiera sentendo i carri andanti al magazzino e cenare allegramente dal cocchiere intanto che la figlia stava male. Storia di Teresa da me poco conosciuta e interesse ch’io ne prendeva come di tutti i morti giovani in quello aspettar la morte per me”. 
Le prime due strofe rappresentano l’età delle speranze in Silvia adolescente ma fin dall’inizio si avvertono connotazioni funebri (fuggitivo ha spesso nei “Canti” anche il significato di vicino alla morte e in questo senso anche il pensosa del v. 5 ha un suo suggerimento). La più gran parte dei canti pisano-recanatesi si fondano sulla situazione psicologica del ritorno del poeta a un paese, a una famiglia –non dobbiamo mai dimenticarlo- amati e al tempo stesso violentemente disamati. Il 25 febbraio 1828 Leopardi aveva scritto alla sorella Paolina e le aveva confessato “che in materia d’immaginazioni, mi pare di esser tornato al mio buon tempo antico”; e poco dopo, il 2 maggio, ancora le aveva confidato “dopo due anni, ho fatto dei versi quest’aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta”. L’intonazione colloquiale di questo dialogo immaginario richiama subito il tema del ricordo, della memoria di un tempo che sembrava felice, e non a caso viene usato, dopo il rimembri iniziale (dettato dall’improvvisa felicità del ricordo), il tempo verbale dell’imperfetto (splendea, salivi), che non colloca l’azione in un tempo preciso ma la lascia nel vago; e giustamente Contini ha sottolineato l’effetto fonosimbolico di splendea, “in quanto l’iato che la desinenza in –ea contiene a fin di verso fissa la durata della contemplazione”. E’ la parola “ancora” (v. 1) che misura subito la lontananza nel tempo, sono passati dieci anni dalla morte della fanciulla. L’imperfetto indica continuità nel passato, spiega perciò la durata indefinita dei sogni giovanili, è il tempo della memoria e dell’illusione. Da subito, infine, compaiono quei binomi lessicali diventati celebri –dice la critica- per “una capacità evocativa prodotta dalla dolcezza del suono e dal valore vagamente contrastivo del rispettivi significati: ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa”. Su questo passaggio il filtro letterario è davvero invadente (v. Petrarca, “che gentil cor udia pensoso et lieto”, Rime, CCCXXXII, 16; e Tasso, “lieta e pensosa vinse”, madrigale Incontra Amor, v. 3). Non c’è corrispondenza amorosa tra Giacomo e la fanciulla, come appare chiaramente da questo passo: “una giovane dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti, ecc., un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso” (Zibaldone, 30 giugno1828, p. 4310-11). Silvia è un’immagine vagheggiata, un’immagine del cuore e del ricordo. La critica poi non si stanca mai di sorprenderci: fate attenzione alle ben undici allitterazioni con dentro il fonema “t” in questi primi versi (tempo, tua, vita, mortale, beltà, tuoi, ridenti, fuggitivi, lieta, limitare, gioventù); esse suggerirebbero una specie di disseminazione fonetica del pronome “tu”, quasi prolungando come in un’eco l’invocazione iniziale, col verbo salivi (v. 6) che contiene, dissimulato in forma di anagramma, il nome Silvia ( così la lunga e affettuosa interrogazione si apre e si chiude con questo nome).


venerdì 27 maggio 2022

LE OTTO MONTAGNE DI PAOLO COGNETTI...DAL ROMANZO AL FILM

 IL ROMANZO  "Le otto montagne” di Paolo Cognetti 

vincitore Premio Strega nel 2017



Questa storia Paolo Cognetti l’ha sempre avuta dentro di sé, qualcosa che è cresciuto con lui e che lo ha accompagnato anche nel corso delle sue precedenti pubblicazioni. Ricordiamo  Il ragazzo selvatico - Quaderno di montagna in cui i temi della solitudine sui monti, della vita lontano dalla città e  della libertà come scelta consapevole e a volte dolorosa diventano un meraviglioso inno alla natura e alle sue incredibili bellezze---


Cognetti sapeva di voler scrivere una storia su un padre e un figlio e su un’amicizia tra uomini oltre che una storia al profumo di larici e abeti, con torrenti, colorata dalle nevi perenni e sincera come la vita.
Un poetico universo di aspettative disilluse nei vecchi e nei giovani, in chi resta e in chi va per ritornare. Un padre pieno di rancore che ama i suoi monti in maniera assoluta, un uomo che cerca di trasmettere al figlio lo stesso amore, la stessa passione per il gusto della salita, la frenesia della vetta e un figlio che di quella dedizione non sa che farsene. Pietro è un solitario e capisce suo padre sempre meno, lo segue di malavoglia, ha altri interessi, legge Mark Twain e Hemingway, percepisce un’attrazione particolare verso quei luoghi che lo calamitano e spesso lo respingono. L’incontro con Bruno giunge provvidenziale per spezzare quella specie  di primaria avversione verso la montagna, con Bruno Pietro scopre le arrampicate, e negli inverni più duri anche il piacere di salire su vette altissime. Bruno chiave di volta di un processo di conoscenza che riporta Pietro,  ormai adulto,  a capire la parte bambina che aveva lasciato indietro.

...diventa un film

al Festival di Cannes 2022, una storia d’amicizia...  


....lunga una vita che inizia dall’infanzia dei due protagonisti per arrivare fino alla maturità.
film diretto da  Felix van Groeningen, Charlotte Vandermeersch Nonostante perda intensità nell’ultima parte, il film ha la capacità di restituire la malinconia delle cime, delle rocce, degli sterpi e delle foglie.....
film di immagini accorte questo di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, attente alla terra,  in un formato che fa pensare alle vecchie diapositive, o che nella cura della luce  ricorda i bei versi sulle montagne della giovane Antonia Pozzi. 
ANTONIA POZZI 


FESTIVAL DI CANNES...PRESENTAZIONE 
     Felix van Groeningen, Charlotte Vandermeersch





... è in concorso nella selezione ufficiale al Festival di Cannes interpretato da Luca Marinelli e Alessandro Borghi.


amicizia nata tra due bambini che, divenuti uomini, cercano di prendere le distanze dalla strada intrapresa dai loro padri ma, per le vicissitudini e le scelte che si trovano ad affrontare, finiscono sempre per tornare sulla via di casa. 


Interessante la analisi , con tanti   TEMI -

  • L’AMICIZIA 
  • IL PADRE
  • LA NATURA
  • RITORNO ALL’ESSENZIALE
  • IL MONDO CHE SCOMPARE

  • viaggio di scoperta interiore, Come scalare una montagna, ripercorrere le tappe di una profonda amicizia, esperienza intensa di conoscenza che i PROTAGONISTI  porteranno sempre nel loro bagaglio emotivo.  A sceneggiare e dirigere due registi di origine belga, Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch

  •  L’andamento del film oscilla tra quel che conosciamo e quel che ci stupisce, lo riconosciamo come una storia nostra ma è raccontata con un linguaggio diverso. Il grosso ovviamente sarà svolto nella fase matura e racconterà di come tutti, anche il montanaro stesso, viene cambiato dalla dipendenza dalla montagna, un posto che non solo attira ma condiziona l’amicizia dei due, la agevola e la cementifica, cambia le loro vite con un piglio umano irresistibile

Al centro del mondo c’è la montagna più alta, il Sumeru, circondata da otto mari e otto montagne», dice Pietro appena tornato dal Nepal all’amico Bruno che dalle sue montagne in Val d’Aosta non si è mai mosso in vita sua. Disegna su un foglio un tondo a spicchi con dentro un circolino più piccolo. Poi dice: «La domanda è: Chi ha imparato di più? Chi ha visitato le otto montagne o chi ha raggiunto la vetta del Sumeru?».

                 
Su GQ  un puntuale recensione da tenere presente....
Le otto montagne e ai suoi protagonisti (Alessandro Borghi e Luca Marinelli) si vuole subito un gran bene





venerdì 20 maggio 2022

 


da  Ulisse - il piacere della scoperta - Fans

PLATONE AVEVA RAGIONE

Il grande filosofo Platone, una delle menti più grandi della storia umana, sul finire della sua carriera venne deriso dai suoi contemporanei a causa di uno scritto che stava componendo. La delusione fu così grande che egli decise di non completare il secondo dei tre racconti sull’argomento, e di non iniziare nemmeno a scrivere il terzo (doveva essere, infatti, una trilogia). Perché i Greci, un popolo abituato ad ascoltare storie di ogni genere, e spesso a crederci, derisero nientemeno che il grande Platone?

Ebbene, nel dialogo “Timeo” e nel dialogo parziale “Crizia” (rimasto incompiuto), Platone racconta che alcuni “misteriosi sacerdoti egiziani” della città di Sais, raccontarono al celebre statista ateniese Solone (638 a.C. – 558 a.C.) una storia. Platone (428 a.C. – 348 a.C.), circa 200 anni dopo, ricevette per vie traverse questa storia, e l’ha usata come una delle fonti da cui ricavare il suo racconto. E fin qui nulla di strano.

In questo racconto Platone dice molte cose. Tra l’altro, racconta l’esistenza di una “Grande Isola” vicino alle “Colonne D’Ercole”. Lui la chiama “Atlantide” o “Terra di Atlante”. I greci del suo tempo sapevano che oltre 40 anni prima di Platone, il celebre storico Erodoto (484 a.C. – 430 a.C.), nelle sue “Storie” chiamò con il nome “Atlante” la catena montuosa dell’odierno Marocco. Tra l’altro, ancora oggi conserva quel nome: Monti dell’Atlante. Per un greco di quel tempo, il nome “Atlantide” o “Terra di Atlante” indicava una terra che si trovava evidentemente ai piedi del monte Atlante. Ma tutti sapevano che non c’era nessuna “grande isola” ai piedi dell’Atlante.

Nel suo racconto, citando i “misteriosi sacerdoti egizi”, Platone affermava che quell’isola esisteva 9.000 anni prima di Solone, quindi 11.500 anni fa. E qui scoppiarono le risate. Per la gente di quel tempo, 9.000 anni prima di Solone il mondo non esisteva nemmeno (per esempio, la tradizione ebraico-cristiana pone la nascita del mondo al 4.000 a.C. circa). Per circa 2.000 anni la gente ha riso di questa affermazione di Platone. Non trovando nessuna “Grande Isola” vicino al monte Atlante, diversi scrittori la hanno “piazzata” un po' ovunque: chi in Sardegna, chi in Irlanda, chi a Cuba, chi in Indonesia. Onesti tentativi di risolvere il “rebus”.

Ma “la Terra di Atlante” è sempre rimasta lì, dove aveva detto Platone. Infatti, pochi anni fa, un piccolo, minuscolo oggetto di metallo, il satellite giapponese PALSAR, ha reso giustizia al celebre filosofo greco. Chiunque siano stati i “misteriosi sacerdoti egiziani” che avevano raccontato a Solone (e tramite lui a Platone) che vicino ai monti di Atlante, nella Terra di Atlante (o Atlantide) esisteva una grandissima isola, avevano ragione. L’articolo della rivista “Nature”, del 10 Novembre 2015, intitolato “African humid periods triggered the reactivation of a large river system in Western Sahara”, a prima firma di C. Skonieczny, parla “di un grande sistema fluviale nel Sahara occidentale, che trae le sue sorgenti dagli altopiani dell'Hoggar e dalle montagne dell'Atlante meridionale in Algeria. Questa cosiddetta valle del fiume Tamanrasett è stata descritta come un possibile vasto e antico sistema idrografico”. L’articolo continua scendendo nei dettagli dal punto di vista geologico. Per farla breve, il PALSAR ha scoperto un mega-fiume gigantesco, oggi inaridito, che partiva proprio dai monti di Atlante e tagliava tutto l’angolo a Nord-Ovest dell’Africa, sfociando nella odierna Mauritania.


La “valle del fiume” del Tamanrasett ha una ampiezza di 90 km circa. La foce di questo mega-fiume, oggi situata sotto il mare, era larga 400 km. Era un “mostro” paragonabile al Rio delle Amazzoni, un fiume così grande che in diversi punti è indistinguibile dal mare. Questo vuol dire che questo fiume poteva raggiungere una ampiezza simile da costa a costa. Immaginate un osservatore a livello del terreno. Come avrebbe fatto a capire che si trattava di un fiume, oppure di un mare, se la costa opposta era a 90 km di distanza? Ad eccezione della salinità delle acque (ma non sappiamo se questo aspetto fosse compreso), nulla avrebbe permesso a quell’osservatore di capire se si trattasse di un fiume o di un mare. Tanto per dire, è una distanza superiore allo stretto di Messina e allo Stretto di Gibilterra messi insieme.


guardando la regione dall’alto, si comprende che quando scorreva il mega-fiume Tamanrasett, durante “l´Ultimo Periodo Umido Africano”, (tra 14.500 e 7.000 anni fa circa, con strascichi fino a 5.500 anni fa), tranne che per un piccolissimo pezzettino a Nord-Est, la “Terra di Atlante”, o “Atlantide”, o territori a Sud del Monte Atlante, era davvero un´isola. A Nord era circondata dal Mar Mediterraneo. Ad Ovest era circondata dall’Oceano Atlantico. A Sud era circondata dal mega-fiume Tamanrasett. Ad Est era quasi completamente circondata dallo stesso fiume, tranne un pezzetto costituito dalla catena montuosa di Atlante. Si può davvero chiamarla “isola”? Nel senso greco “Sì”.

Tutti conosciamo cosa è il Peloponneso, una delle zone più importanti della Grecia. Ebbene, il Peloponneso ha esattamente la stessa conformazione geografica della “Terra di Atlante”. È una “quasi isola”, attaccata alla terraferma da un piccolo istmo. Cosa vuol dire il termine Peloponneso? Questa parola deriva dal greco Πέλοπος νῆσος (Pelopos Nesos), vale a dire “Isola di Pelope”. Questa è una prova non confutabile che per i greci dei tempi antichi, una “quasi isola” come il Peloponneso poteva essere considerata un νῆσος, o “isola”. Nulla di strano quindi se Solone, e dopo di lui Platone, chiamarono la “quasi isola” del Monte Atlante, o Atlantide, con νῆσος, o “Nesos”, il termine che noi traduciamo con isola nel senso moderno del termine.

Quella era davvero l’Isola di Atlantide? Quella “quasi isola” non può essere considerata “Atlantide” se non supera “l’esame dei cerchi”. Cosa vogliamo dire? Nel suo racconto Platone dice che nelle vicinanze dell’Isola di Atlantide si trovavano 2 strutture uniche nel loro genere. Secondo il racconto, una di queste strutture geologiche naturali era stata creata direttamente da Poseidone, e quindi la chiamiamo “Isola di Poseidone”. Si trattava di una montagnetta centrale, attorno alla quale c’erano 3 anelli di mare e 2 di terra, perfettamente concentrici. Non viene detto nulla riguardo alla sua grandezza. Viene detto che era “sacra”, inaccessibile e disabitata.
ATLANTIDE


La seconda struttura, su cui gli umani edificarono una città, la possiamo chiamare “Isola della Metropoli”. Era una struttura geologica naturale che ricalcava molto da vicino la precedente, ma in questo caso vengono date le sue misure. C’era un’isola centrale pianeggiante ampia circa 900 metri, seguita da 3 cerchi di mare e 2 di terra, perfettamente concentrici. Il totale dell’ampiezza era circa 5 chilometri. Attorno a questa struttura geologica naturale (in cui risiedeva il re e la nobiltà) si estendeva la città vera e propria di Atlantide.

Quante possibilità ci sono di trovare vicino al percorso dell’antico fiume Tamanrasett non una, ma due strutture geologiche naturali formate da cerchi concentrici, una delle quali deve essere ampia 5 chilometri, e avere una specie di isola centrale ampia 900 metri? Direte: “Nessuna!”. Ebbene, come viene detto nel libro “Atlantide 2021 – Il continente ritrovato”, ancora una volta grazie ai satelliti, queste due strutture sono state scoperte proprio lungo il percorso del fiume Tamanrasett.

La prima struttura geologica naturale viene chiamata “Cupola di Semsiyat”. Si trova sull'altopiano di Chinguetti, nel deserto della Mauritania, a 21° 0' Nord di latitudine e 11° 05' Ovest di longitudine. Le sue misure sono esattamente quelle indicate da Platone per l’Isola della Metropoli. La sua ampiezza massima è esattamente di 5 chilometri. Al centro si trova una formazione ampia esattamente 900 – 100 metri, quanto era “l’isola centrale” della Metropoli di Atlantide. Si intravede anche un secondo cerchio interno, esattamente della misura descritta da Platone. La seconda struttura si chiama “Struttura di Richat”, e si trova a circa 20 chilometri di distanza. È ampia circa 40 km, ed è composta da una zona centrale dalla quale partono una serie di “cerchi di roccia”. Ci sono i chiari resti che indicano che una volta quello era un lago da cui affioravano dei “cerchi di terra”. È la rappresentazione perfetta “dell’Isola di Poseidone” descritta da Platone.

Oggi i satelliti hanno mappato tutta la superficie terrestre. Non esistono altre strutture simili sulla Terra che abbiano quelle misure o quelle caratteristiche. Sono “uniche”. Quindi, finché non verrà scoperto nulla di simile in giro per il mondo, in base a tutte le prove fornite dalla più moderna tecnologia, possiamo dire di aver davvero trovato la terra di cui parlava Platone: Atlantide.

Quindi i “misteriosi sacerdoti egiziani” non avevano mentito a Solone, e di conseguenza a Platone, quando gli dissero che ai piedi del monte Atlante, circa 11.500 anni fa, si trovava “una Grande Isola”. Ma questo fa sorgere altre importantissime domande: come lo sapevano? Quale civiltà era a conoscenza di fatti accaduti tra 14.500 e 7.000 anni fa? Questa zona dell’Africa è mai affondata? E che relazione ha “Atlantide” con Nan Madol e il “Continente sommerso” di Sundaland e Sahuland, recentemente scoperto dai ricercatori? Dove sono andati a finire tutti quanti? Il libro “Atlantide 2021 – Il continente ritrovato” risponde a queste domande, basandosi sempre ed esclusivamente su lavori di celebri scienziati, pubblicati su autorevoli riviste come “Science” e simili.

 il libro qui:
ATLANTIDE 2021 – IL CONTINENTE RITROVATO
https://www.amazon.it/dp/B08TVX2J59